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Non c’è nulla di veramente nuovo nelle faccende degli uomini. Tutto si ripete con qualche piccola sbavatura da rendere le copie simili ma non identiche, dettagli che non fanno in ogni caso la differenza. Erano gli anni 60 del dopoguerra. 

Nel Regno Unito alcuni giovani sognavano di risorgere, vestendosi con cura, azzimati di tutto punto, girando con le nostre vespe e lambrette, accessibili alla tasca. Ascoltavano il modern jazz e gli piaceva così. Nacquero i Mods.

Altri si misero addosso jeans e giubbotti di pelle cavalcando invece moto rombanti. Ascoltavano il rock and roll americano. Nacquero i Rockers.

Una volta vennero alle mani. La stampa ci ricamò sopra. A furia di parlare di un fatto lo si costituisce. E così è stato. Se le davano in genere sulla spiaggia, non più di qualche slogatura alla fine del confronto, finché il mare non li ha cancellati portando sbadigli sulle loro imprese, soppiantate da altre di nuove per mano di altri.

Oggi siamo nell’era della comunicazione. Imperversano onde corte e onde lunghe, bande strette e bande larghe.

Tra le bande ci sono i Trap. Niente a che vedere con i cacciatori americani trafficanti per terre selvagge, in giro per mettere tagliole e catturare animali di cui farne pellicce da commercio. Nessuna ispirazione all’ardimento, il clima e l’ambiente del film “Passaggio a Nord Ovest”. Il Trap girà in città, ne conosce bene i sobborghi ma non ne valica i confini. Di montagne e sentieri impervi non sa nulla e non ci si avventura.

Il Trap è una musica di scarto, dalla quale, a sua volta, può nascere sempre qualcosa di peggio. Miracoli del precipizio. Tecnicamente si dice sia un sottogenere del Southern rap. Nasce in Atlanta, Georgia, dove dilaga la droga nelle trap house. Trapping è sinonimo di spaccio e si cade nella rete della droga per vendersi la pelle di chi ci è caduto.

E’ una musica che utilizza un aggeggio che si chiama auto-tune, che inizialmente serviva per raddrizzare le stonature. Tanto per confondere ancor più le acque ed ingarbugliare i pensieri, i Trap lo usano per distorcere voci già sgangherate del loro.

Non semplice alterare ciò che già non sta in piedi. Ne viene fuori una voce robotica. Per alcuni è ciò che basta per essere felici e soddisfatti, l’importante è che abbia poco di umano.

In Italia tutto è più casareccio. I nostri trap, scopiazzando per il mondo, si danno nomi improbabili, spesso difficili da pronunciare o evocativi di chissà che; si danno sigle astruse forse perché hanno poco a che fare con la grammatica o per evitare di darsi un timbro di agevole riconoscimento che ne sbiadisca il fascino.

Sembra non debba mai perdersi il sapore di giungla che fa approccio nelle suggestioni dell’anima.

Uno di questi trap nostrani si chiama Simba, attingendo dal nome del re leone della favola con cuore nobile e lieto fine, ancora a digiuno di auto-tune a violentarne il racconto.

Simba: non un grande sforzo di fantasia. Si è beccato una coltellata da qualcuno e prima ancora aveva sequestrato uno di una altra banda, un certo Baby Touché. Il suo vero cognome è Lamine, coerente con qualcosa che abbia a che fare con colpi di taglio.

Si parla di una faida. Fai da te fai per tre. La sostanza è la droga che gira inneggiata nei testi della loro musica. Si tratta delle note proprie del dolce scampanellio delle monete, frutto del mercato conteso tra questa e quella zona.

Questa non è una storia a tutto tondo. Il mondo, nel punto di quella scuola, ha una fossa ed il suo profilo si spezza mandandolo, incurante, fuori uso.