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In un recente convegno a Milano si è parlato dell’amore tra ragazzi affetti da sindrome di down. Finché restiamo sul piano dei sentimenti, nessuna eccezione.

Quando entriamo nel campo minato del sesso, è facile poter inciampare e non trovare via d’uscita da un sentiero che si è fatto tortuoso.

La materia è complicata per chiunque, con tutti i suoi infiniti risvolti identitari e psicologici: figuriamoci per chi potrebbe non avere le spalle grosse e robuste, per una esperienza così centrale nella vita di ciascuno. Così almeno vien detto.

I ragazzi down sono affetti da mongolismo, una parola che oggi si pensa offensiva, malgrado quegli occhi a mandorla che danno loro una rara nobiltà. Sono speciali come è speciale la loro malattia che è la ricchezza di un miscuglio di sintomi dei quali ancora oggi non è chiara una causa.

Letteralmente sindrome è la composizione di “insieme” e di “corsa”. Sembra perfetta per un amore che non ci sta a pensare troppo sopra, che non si carica di troppi ragionamenti, l’abbraccio del cuore che arriva prima dei drammi e delle fatiche della mente.

 Loro sono “down”, ci vanno giù senza caricarsi di patemi particolari. Si amano andando rapidi verso l’abbraccio. Accade che i “grandi” gli stiano spesso di mezzo, forse imbarazzati a lasciarli fare, non trovando loro per primi un posto dove rifugiarsi, mentre i figli sanno che non è affar loro trovargli un parcheggio adatto.

Vorrebbero, comprensibilmente, insegnargli l’amore degli adulti perché ne abbiano gioia e perché sappiano dare un nome ad ogni azione.

Loro, i down, se ne fregano perché hanno il dono di lasciarsi andare. Vanno a casaccio ed è forse questa la loro bellezza. La natura farà il suo corso. Se anche non vi riuscissero e fossero certi di averlo fatto, va bene lo stesso. A modo loro, andranno comunque a meta e sarà bello così. L’importante è che dopo, per la felicità, abbiano gli occhi ancor più socchiusi dal riso e la bocca anch’essa a mandorla. Ci sarebbe da invidiarli. Impareremo a farlo.