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Verona è la città dove i sentimenti sono spesso in fermento. Romeo e Giulietta non se la passarono un granché bene, ma erano tutto sommato in pochi ad essere coinvolti nella questione. Loro due ad amarsi e le rispettive famiglie a fronteggiarsi.

Il loro amore è passato alla storia ma aveva un pubblico discreto, qualcosa da sbrigare per come possibile all’interno delle loro case, nessun panno in piazza da sbandierare. La cosa poi è scappata di mano ma le intenzioni erano buone.

A Verona domina una arena in cui è rimasto impelagato il maestro Placido Domingo. La sabbia serviva ad assorbire il sangue dei gladiatori che si combattevano per denaro e per la libertà.

A lui è rimasta, come incastrata a terra, la bacchetta che ha perduto la sua polvere magica, sbriciolandosi anonima tra le zolle anonime del celebre anfiteatro.

Avrebbe voluto comandare a bacchetta l’orchestra che ha diretto anche nel tempo degli applausi, ma le cose hanno preso una piega opposta.

 La sua bacchetta, al pari di un idrometro, ha registrato, in ogni sua tacca, gli orchestrali immobili sulle loro sedie a dispetto del maestro che li invitava ad alzarsi.

Al rifiuto, avrebbe voluto bacchettarli per come devesi ma ha rinunciato. Con un colpo di bacchetta mal dato, invece che incantarli all’obbedienza, li ha imbambolati in un clamoroso fermo immagine.

Tutti incollati alle sedie senza muovere un muscolo. In caso di eventuale insistenza, semmai il rischio che le loro bacchette si trasformassero in frecce. Una scena da far impallidire d’invidia persino San Sebastiano.

L’accusa è stata quella di incompetenza: una voce, pallida ombra del passato e una direzione troppo modesta per quel palco di lustro. C’è sempre un sottobosco: la contrarietà ad essere diretti da chi ha sul capo l’accusa di molestie sessuali note alla cronaca.

Immancabili i comunicati dei sindacati a difesa dei professori di musica e, sul fondo, le note di protesta e in libertà di prove d’orchestra dal suono felliniano.

 E’ accaduto durante la Turandot, una trama dove la bella principessa, per promettersi in moglie, chiede al pretendente di risolvere tre enigmi. All’errore, l’interrogato ci rimetterà però la pelle.

La giustizia ed il tempo scioglieranno l’enigma della vera ragione di protesta contro Placido Domingo, comunque un ammutinamento in grande stile.

Eppure Placido è un nome che dispone al buono, che dà tranquillità al suo incontro. E’ insomma uno che piace.

Come non bastasse, calcando la mano, vanta un cognome che richiama il giorno dedicato al Signore. Così, per non cadere troppo nel misticismo, si è consolato: nella sua patria Dominguin è il cognome del celebre torero che, sempre in una arena, ha esaltato schiere di tifoserie, non rischiando certo di essere tacciato di santità.

 Ha sparso fiumi di sangue e non preghiere. Ha cercato applausi e non il Paradiso.

Ormai la frittata è fatta. Ciò che andava previsto in anticipo ha avuto immancabilmente esito nel dopo. E’ accaduto con puntuale fatalità durante la rappresentazione del capolavoro pucciniano.

La Turandot è un’opera incompiuta, terminata poi da un allievo di Puccini. Così non fosse stato, avrebbe potuto essere provocatoriamente eseguita in modo mozzo, come lo è spesso la realtà, lasciando in sospeso la conclusione della storia.

Ci avesse invece pensato Puccini per l’intero, può darsi il finale sarebbe stato diverso ed il libretto avrebbe cambiato forse il suo esito finale.

Fatto è che, davanti al padre ed alla folla, Turandot, convertita finalmente ai buoni sentimenti, svela l’identità dell’uomo che, conquistandola, ha saputo rispondere ai suoi macabri indovinelli: “Amore”!

Davanti alla folla Placido Domingo pare abbia smarrito l’armonia e gli accordi. Forse, anche l’amore ed il suo nome.